Guidare è morire?

ASAPS Berselli

La denuncia che segue non è di noi soliti "rompiballe" del C.I.M., anche se in realtà diciamo proprio queste cose da una vita: di moto si muore e non siamo noi i killer della strada, ignoranza di chi si mette su una sella senza preparazione, sottocultura degli automobilisti, infrastrutture non degne di un Paese che vorrebbe essere "europeo" ma sta "scivolando" verso situazioni da Paese in via di sottosviluppo.

Riportiamo così un bellissimo editoriale comparso sulla rivista dell'A.S.A.P.S. di cui da sempre ammiriamo il coraggio delle posizioni e le battaglie negli anni seguite con costanza: un'Italia che vuole cambiare c'è, ma è fatta da sparuti gruppi di "volontari" sovente voci nel nulla dell'ignavia…come succede proprio con i motociclisti italiani.

Non avremmo saputo scrivere meglio, grazie. E' lunga, lo sappiamo, ma abbiate la PAZIENZA di leggere, già il farlo sarebbe indice di intelligenza e di presa di COSCIENZA!

Leggete e MEDITATE, GENTE, MEDITATE!

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Moto e motociclisti non sono killer della strada: cadono e muoiono spesso per mano di inesperienza propria, distrazione degli altri ed incuria delle strade.

Nel 2012 il parco circolante di motocicli in Italia è stato calcolato nel rapporto Aci-Censis in 6.481.770 pezzi, su un totale di 49.013.180 veicoli: il 13,2%

Secondo i dati Istat, però, i motocicli coinvolti in sinistri stradali sono il 13,6% del totale, con 787 morti (di cui solo 20 donne) che rappresentano il 26,6% dei decessi e 42.200 feriti (di cui 5.051 donne); se al computo aggiungiamo i ciclomotori, che hanno registrato 117 vittime – il 3,9% dei decessi – e 15.800 feriti, il bollettino ci racconta una realtà ben peggiore.

Questo vuol dire che un problema c’è e numericamente fa davvero paura: 904 morti fanno il 30,5% delle vittime della strada

In questa inchiesta, lo potrete leggere voi stessi, non ci sono favoritismi: abbiamo semplicemente fatto i conti e l’ASAPS in questo si è sempre distinta.

Non abbiamo alcuna difficoltà ad accettare critiche e confrontarci con chi pone argomenti diversi; possiamo parlare di guardrail e guida aggressiva per giorni ma la questione non si sposta di un millimetro, così come il punto interrogativo che chiude il grassetto di una domanda che vorremmo fare ad alta voce.

Perché in moto si muore?

Pensare che il problema non sia sociale è profondamente sbagliato, sia da un punto di vista etico – e di questo anche i più intransigenti debbono farsene una ragione – perché una morte sulla strada è una sconfitta di tutti, che pratico, perché la montagna di motociclette e scooter a terra è un problema di salute pubblica, con conseguenze immense da un punto di vista sociale ed economico.

Secondo gli ultimi studi disponibili, il costo sociale medio per un deceduto sulla strada in Italia è di circa 1 milione e mezzo di euro, mentre il costo sociale medio di un incidente stradale mortale è di un milione e 600mila euro1.

Se si considerano anche gli incidenti con lesioni e le conseguenze in termini di invalidità, si calcola, nella stessa analisi, che un anno come il 2010 è costato alla nostra amata Patria qualcosa come 28 miliardi e mezzo di euro: i costi sociali degli incidenti stradali costituiscono una stima del danno economico subito dalla società a causa di tali eventi; il danno economico non è rappresentato da una spesa diretta sostenuta dalla società, ma è la quantificazione economica degli oneri che, a diverso titolo, gravano sulla stessa a seguito delle conseguenze causate da un incidente stradale.

Dunque, si può parlare quanto si vuole di tagli alla politica e di riduzione della spesa pubblica, ma il nostro futuro economico dipende parecchio anche da come ci comportiamo sulla strada e senza tirare sempre in ballo De Amicis e il celebre passo di Libro Cuore sull’educazione stradale, se è vero che in Inghilterra la mortalità è esattamente la metà di quella italiana (1.713 vittime contro 3.653, a parità di popolazione), è dunque altrettanto vero i britannici hanno 14 miliardi di euro (e rotti) in più di noi, da spendere come meglio credono.

Magari per mettere a posto le strade o per rafforzare l’educazione al traffico nelle scuole e investire su un futuro a morti-zero.

Peccato che anche nel Regno Unito proprio il numero di vittime in sella torni a crescere per la prima volta dal 2006: i caduti sono infatti cresciuti dell’1%, da 328 vittime registrate nel 2012 alle 331 del 2013 (in Italia 904 vittime fra motociclisti e ciclomotoristi).

Sono diminuiti i feriti gravi (-3% con 4.866 ricoveri) e la sinistrosità complessiva della categoria (-3% con 18.752 casi), ma il dato è ancora più preoccupante se si considera che all’aumento di vittime è corrisposta anche una diminuzione del traffico veicolare della categoria dei motocicli del 5%.

La domanda se la fanno un po’ dappertutto, nel mondo. In Australia, paese che in quanto a sicurezza stradale se la cava piuttosto bene e che conta circa 200 vittime all’anno nella categoria, il tasso di mortalità per le due ruote è più alto di 30 volte rispetto all’auto.

Così l’università di Monash, vicino a Melbourne, ha cercato di capire cosa non funzioni ed ha scoperto, ad esempio, che buona parte della colpa è degli altri veicoli.

Infatti, nei luoghi in cui la presenza di motocicli aumenta (come ad esempio una nostra città tipo), il livello di sinistrosità che li caratterizza è più basso, segno inequivocabile, secondo gli studiosi australiani, che l’attenzione degli automobilisti è più alta perché maggiormente abituata ad avere centauri vicino al proprio veicolo e, quindi, nel flusso della circolazione in cui sono inseriti.

L’attendibilità dello studio australiano è confermata dai numeri statunitensi: negli USA infatti il rischio morte dei bikers è 34 volte più alto rispetto agli altri veicoli.

E se è vero che perfino internet si spacca in due, tra chi accusa i motociclisti di essere prepotenti e incoscienti e, sostanzialmente di cercarsela, dall’altra c’è da considerare che quando l’incidente mortale avviene tra una moto e un veicolo di altro tipo, il 98% delle vittime appartiene alla categoria dei centauri; il tasso di mortalità americano nel 2005 è di 73 vittime ogni 100mila motocicli immatricolati, rispetto ai 14 decessi ogni 100mila vetture registrate.

Il fenomeno americano è però viziato dal fatto che negli USA il casco è obbligatorio in soli 19 stati su 50, in 28 vi sono leggi che lo impongono ai minori di 18, 19 e 21 anni, mentre in tre stati non c’è alcuna legislazione in materia: lo studio “Cochrane Review” ha dimostrato che usare il casco riduce del 69% il rischio morte e ben il 45% dei motociclisti rimasti uccisi sulle strade americane non ne faceva uso.

Non abbiamo dati italiani così precisi ma la sproporzione a stelle e strisce è evidente: dal 1997 al 2005 le immatricolazioni di moto negli Stati Uniti è cresciuta del 63% e il numero di morti (rilevato nello stesso periodo) è salito addirittura del 127%8.

La statistica vince?

Bastano dei numeri freddi a sancire che il motociclismo è una passione incompatibile con la vita?

Certo, se aggiungessimo i dati dei fine settimana, che restano i giorni più pericolosi secondo l’Istat e quelli più amati dai bikers, e se prendessimo per buone le sortite di molte polizie (se effettivamente in difesa della vita dovremo prima o poi coraggiosamente capirlo, nda), la risposta sarebbe certamente affermativa, ma l’empirica conoscenza della strada, l’approccio sociologico che deriva dalla nostra professione ci suggerisce anche qualcosa di diverso.

Mancano sostanzialmente quattro condizioni, in Italia: la capacità tecnica, la capacità di rispettare le regole in armonia tra le categorie di utenti, la capacità di farle rispettare secondo un modello unitario e condivisibile da tutti e una situazione infrastrutturale accettabile.

Proviamo, per un attimo, a pensare come Valentino Rossi vivrebbe una giornata di svago in moto: pensate che uscirebbe bardato come per una gara iridata? Pensate che cercherebbe la concentrazione inginocchiandosi sulla pedana del freno? Pensate che tirerebbe la prima curva a manetta confidando in una gomma già in temperatura? Pensate che braccherebbe il primo motociclista davanti a lui sorpassandolo in staccata?

Beh, la risposta è NO!

Però non uscirebbe mai con un caschetto aperto, senza guanti o paraschiena.

E abituato com’è a rispettare le regole in pista, certamente non impennerebbe alla ripartenza da un semaforo rosso e – crediamo – che non strofinerebbe la rotula ad ogni curva.

Perché, il Dottore sa benissimo che scivolare su una curva di montagna non gli consentirebbe di dissipare la velocità come in una via di fuga in pista, ma finirebbe contro una lama di rail, un cartello, una pietra miliare, un veicolo in transito.

Quindi, adeguerebbe la sua velocità alla strada ed al livello di sicurezza esterno, magari farebbe una bella piega lo stesso, ma resterebbe entro un limite assolutamente sicuro.
 
Forse per questo lo vediamo poco in giro, perché sulla strada ci sono anche gli altri e può anche capitare che a farsi male sia proprio il motociclista rispettoso, per mano del distratto di turno. 

Nel 1992, il futuro campione del mondo della 125 Alessandro Gramigni se ne stava a spasso in moto con gli amici del paese, quando venne investito da una signora e rischiò di perdere il titolo se non fosse stato portato subito dal dottor Costa, che gli rimise la tibia a posto per mantenere il distacco di 16 punti da Fausto Gresini.

Insomma, noi non crediamo che la moto sia pericolosa a prescindere.

È resa tale, purtroppo, dal comportamento di chi ci sta sopra e da chi – spesso – si trova alla guida di un’auto o di un camion estraniato dal resto del traffico, magari perché sta smessaggiando con qualcuno, magari perché deve accendersi una sigaretta o semplicemente perché, dal suo punto di vista, tagliare una curva non gli sembra poi così pericoloso.

Perché i motociclisti muoiono? Che età hanno quelli che ci lasciano la vita? 

Sarebbe già difficile dirlo, ma scriverlo sulla rivista della sicurezza stradale lo è ancora di più: l’idea è che quando il motociclista muore, spesso si tratta di un neofita o di una persona, quasi sempre di sesso maschile (solo 20 donne motocicliste cadute su un totale di 787 vittime) che non ha ancora sviluppato la consapevolezza del rischio e che forse – quando muore per colpa propria – si sarebbe potuta uccidere in qualche altra attività o per effetto del dueruotismo di ritorno.

Perché se così non fosse, se il rischio di morire in sella fosse così statisticamente alto (anche 34 volte in più rispetto alla guida di un’auto), com’è possibile che alcune persone riescono a guidare moto per decenni, fino ad appendere il casco al chiodo per raggiunti limiti d’età, sani e salvi?

Senza entrare nel campo della filosofia, qui è una questione di regole.

Il motociclista capace, che rispetta le regole, se incontra un automobilista attento e rispettoso, torna a casa di sicuro. 

E anche se scivola su una macchia d’olio e cade a terra, alla testa pensa il casco, alla schiena la tartaruga e a dissipare la velocità d’impatto una barriera che non sia una scimitarra.

(*) Sovrintendente della Polizia di Stato Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.